Che gusto ha studiare il cannibalismo? - Un punto di vista sociologico (seconda parte)
Nel titolo del mio saggio un altro termine chiave è questioni di genere, da intendere semplicemente come la variabilità con la quale si viene definiti uomo o donna e correlata all’orientamento sessuale. Questi due aspetti sono stati essenziali per questa opera, poiché sono stati utilizzati per scegliere ed analizzare 5 soggetti cannibali: Leonarda Cianciulli la Saponificatrice di Correggio, Andrej Romanovič Čikatilo il Mostro di Rostov, Dmitry Baksheev e Natalia Baksheeva la Coppia cannibale, Jeffrey Lionel Dahmer il Mostro di Milwaukee e Armin Meiwes il Cannibale di Rotenburg an der Fulda.
I primi quattro soggetti menzionati possono essere definiti serial killer, ricordando che serialità è la terza parola chiave del titolo della mia opera, poiché un serial killer è un soggetto che compie almeno tre omicidi tra i quali intercorre un periodo di raffreddamento emozionale, il cui agire sottende un insieme ampio e variegato di pulsioni sessuali devianti, tali da indurre, soventemente, durante l’omicidio, anche il coito. Poiché sono soggetti che agiscono sotto l’influsso del desiderio sessuale, sono incapaci di smettere di uccidere, a meno che non sopraggiunga un evento esterno alla loro volontà: l’arresto o la morte. Armin Meiwes, invece non è un serial killer avendo ucciso una sola vittima.
Vediamo alcune principali caratteristiche.
Leonarda Cianciulli, la Saponificatrice di Correggio, uccise 3 donne, le fece a pezzi per poi ricavarne del sapone, mentre il sangue lo raccolse, lo essiccò per poi farne biscotti che mangiò lei stessa con diversi conoscenti. Nel caso di questa donna, per esempio vi sono elementi tipicamente maschili: l’utilizzo di armi come un martello e una scure, l’atto di sezionare i corpi, ecc. A suo dire fece tutto ciò per annullare una maledizione che le aveva lanciato sua madre, e avendo perso molti figli temeva che gli unici in vita potessero fare la stessa fine.
Andrej Romanovič Čikatilo, il Mostro di Rostov, uccise tra 53 e 56 vittime tra bambini, disabili e giovani donne, cibandosi di diverse parti dei loro corpi, con modalità omicidiarie tra le più brutali ed efferate nella storia della criminologia del cannibalismo. Era solito accanirsi sui polmoni, il cuore e gli organi sessuali; in particolare, asportava e divorava i genitali delle vittime ancora in vita; sembrerebbe aver strappato a morsi e masticato la lingua, il labbro, il naso e i capezzoli di alcune sue vittime. Inoltre, si cibò dell’utero di una donna dove aveva precedentemente rilasciato il suo seme. Dunque, nel suo caso vi sono elementi tipicamente maschili nel modus operandi.
Dmitry Baksheev e Natalia Baksheeva, la Coppia cannibale, il loro caso è uno dei più recenti. Dalle dichiarazioni rilasciate, avrebbero non solo cannibalizzato più di 30 persone, ma anche parte di queste per delle ricette utilizzate per dar da mangiare ai militari nella mensa in cui lavorava Natalia. Nella strutturazione di questa coppia, le questioni di genere sono interessanti. Il loro modo di agire rientra nel disturbo psichiatrico noto disturbo psicotico condiviso. Questa sindrome venne descritta, sotto il nome di Folie à deux, per la prima volta da Lasègue e Falret. Si tratta di un quadro clinico peculiare in cui un soggetto dominante, denominato induttore o caso primario, influenza un soggetto più debole, denominato indotto, arrivando ad imporgli il suo sistema delirante. Normalmente l’uomo è l’induttore e la donna l’indotto, mentre in questo caso Dmitry ha ucciso una donna, Elena Vakhrusheva, su richiesta di Natalia in preda alla gelosia.
Jeffrey Lionel Dahmer, il Mostro di Milwaukee, ha ucciso e cannibalizzato 17 ragazzi. La sua ossessione era quella di trovare qualcuno che non lo abbandonasse, tanto è vero che tentò di realizzare un vero e proprio zombie iniettando varie sostanze nel cranio di una vittima. In Dahmer sono state riscontrare varie peculiarità criminologiche, una fra tutte: la splancnofilia, una tipologia di disturbo parafilico individuato in tutta la storia del serial killer sono in Dahmer appunto, e consiste nell’attrazione sessuale provata per l’involucro esterno degli organi interni. Dahmer infatti ha dichiarato di avere avuto rapporti sessuali non solo con i cadaveri delle vittime, praticando quindi necrofilia, ma a volte con parti di essi come crani, organi ecc. Nel modus operandi di questo serial killer si rilevano elementi tipici della serialità femminile come l’uso di sostanze per avvelenare e/o addormentare le proprie vittime.
Armin Meiwes, il Cannibale di Rotenburg an der Fulda, si è cibato di un solo soggetto, che si consegnò volontariamente, perché desiderava essere mangiato vivo. Meiwes tagliò il pene della vittima e lo consumarono insieme per poi ucciderlo e mangiarsi la sua carne per diversi mesi. Ha dichiarato che la carne umana ha un gusto simile a quello della carne di maiale ma un po’ più amara.
In realtà molte di queste pratiche fino ad ora descritte si ritrovano nei culti di diverse divinità cannibali come il demone Asmodeo definito come il distruttore, capace di cibarsi delle sue vittime; Lamaštu, divinità di origine mesopotamica; secondo diversi miti, a differenza delle altre divinità mesopotamiche, ella attaccava le sue vittime autonomamente e non per ordine di altre divinità. Le sue vittime predilette erano le donne prossime al parto e i neonati, che venivano rapiti durante l’allattamento per cibarsi delle loro ossa e del loro sangue; Crono, nella denominazione greca, o Saturno, nella denominazione romana, dopo aver sposato sua sorella Rea, la quale partorì i suoi figli, a divorarli uno per uno. Il suo atto antropofagico è stato reso celebre, nel mondo dell’arte, da Francisco Goya e la sua opera Saturno devorando a su hijo.
Nel saggio però, ho dato molto spazio ad una divinità che ha un rapporto peculiare con il cannibalismo ossia Śiva, dio ermafrodito degli umili, i śūdra. Nel culto di questa divinità i sacrifici umani rispecchiano certe credenze dell’essere umano, certi aspetti della natura del mondo che sarebbe imprudente ignorare. Sono parte dell’inconscio collettivo e rischiano di manifestarsi in forme perverse se non osiamo affrontarli. “Esistere vuol dire mangiare ed essere mangiato. L’uomo è ciò che mangia. Ogni essere vivente si nutre di altri esseri e diverrà nutrimento di altri esseri in un ciclo interminabile”. Śiva viene così considerato sia come divorato che come divoratore; Śiva stesso afferma: “Io sono il cibo, io sono il cibo, io sono il cibo! Io sono il mangiatore del cibo, io sono il mangiatore del cibo, io sono il mangiatore del cibo!… Dal cibo le creature nascono, per opera del cibo una volta generate si mantengono in vita, nel cibo morendo ritornano”. È indubbia la correlazione con le concezioni socio-psicoanalitiche sul cannibalismo seriale, come se negli antropofagi seriali vi fossero delle sopravvivenze inconsce, ovvero una sorta di esternazione di queste concezioni sedimentate nel proprio inconscio, un istinto primitivo e śivaista che si slatentizza.
Primitivo perché l’atto di uccidere e cannibalizzare era tipico delle popolazioni primitive, o meglio ancora del passato, perché spesso in periodi più recenti caratterizzati da grave carestia sono stati praticati atti antropofagi per garantire la propria sopravvivenza. E questo aspetto è abbastanza noto e trattato nella letteratura in generale, soprattutto lombrosiano-freudiana di cui si è fornita una breve panoramica.
Sul secondo aggettivo, ossia śivaista, a oggi non vi è alcun riferimento e legame, se non per gli atti antropofagici, al campo della criminologia. È necessario precisare che non si sta sostenendo che gli śivaisti siano dei serial killer, ma che in questi ultimi sembrerebbe riaffiorare un’attitudine che ricorda la ritualità, i principi, e alcuni aspetti tipici di questo culto; una vera e propria forma di regressione, o forse la dimostrazione del fatto che tutti siano accomunati da un unico grande inconscio collettivo. Una prima prova legata a questa ipotesi potrebbe essere rappresentata da una delle poche popolazioni inclini al cannibalismo ancora in vita, ossia gli Aghori.
Dunque, il gusto del cannibalismo ha molte sfumature perché mette a nudo pensieri e desideri che fanno paura, e ci mettono innanzi ad una domanda difficile da porsi: chi è un mostro? Forse potremmo rispondere con il titolo di un’opera dello psichiatra forense, Robert Simon, I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno.
Che gusto ha studiare il cannibalismo? - Un punto di vista sociologico (prima parte)
“La conoscenza (…) comincia con la tensione tra sapere e ignoranza: non c’è problema senza sapere – non c’è problema senza ignoranza. Poiché ogni problema nasce (…), dalla scoperta di un’apparente contraddizione fra quello che riteniamo nostro sapere e quelli che riteniamo fatti”.
Con queste parole si conclude il mio secondo saggio, Cannibalismo, questioni di genere e serialità (2023) edito dalla casa editrice Tab edizioni di Roma nell’aprile dello scorso anno. Non mi sarei mai aspettato che un tema così pregno di timore, tanto da essere annoverato come uno dei più grandi tabù, potesse suscitare tanto interesse… Eppure, è successo! Questo saggio ha vinto una menzione di merito dalla giuria del concorso nazionale Caffè delle arti; è stato collocato al terzo posto tra i migliori saggi sul tema da Notizie scientifiche; è stato attenzionato da testate giornalistiche e culturali di respiro nazionale, etc.
Ricordo, però, che appena mi misi all’opera, molti tra docenti e amici mi chiedevano “che gusto ci trovi a studiare questo tema?”. La mia risposta era, ed è, molto semplice: mi piace tutto ciò che è poco attenzionato, ciò che è di nicchia, perché è in queste intercapedini del sapere che si ha la possibilità di portare alla luce qualcosa di nuovo, o semplicemente qualcosa di cui si conosce molto poco… Ed è proprio il caso del cannibalismo, che per quanto sia stato studiato dall’antropologia, dalla criminologia e dalla stessa psicoanalisi, e vedremo brevemente in che modo, da parte della sociologia, invece, non vi è stato molto interesse.
Gli argomenti trattati in questa opera sono tanti: dall’analisi transdisciplinare del cannibalismo l’antropologia, la sociologia, la criminologia e la psicoanalisi; allo studio di 5 casi di soggetti cannibali Leonarda Cianciulli, Andrei Chikatilo, i coniugi Baksheev, Jeffrey Dahmer, Armin Meiwes, nonché alcune divinità antropofaghe come Śiva, per poi giungere ad una ipotesi secondo la quale i tratti comuni tra il modus operandi dei serial killer studiati e i culti cannibali vi sarebbe, in soggetti di questo tipo e non solo, un istinto atavico di tipo sociopsicologico e śivaista.
Da notare il fatto che negli ultimi anni il tema del cannibalismo è tornato in auge grazie sul grande e il piccolo schermo, pensiamo alla pellicola cinematografica Bones and Hall, adattamento cinematografico di Luca Guadagnino dell’omonimo romanzo di Camille DeAngelis; la serie tv Dahmer - Monster: The Jeffrey Dahmer Story e molto recentemente La Società della Neve il cui soggetto principale è il caso del disastro aereo sulle Ande in cui vennero praticati atti di cannibalismo per sopravvivenza.
Ma innanzitutto cosa si intende per cannibalismo?
In generale potremmo definirlo come l’atto con il quale un individuo si ciba di un altro suo simile, cioè appartenente alla sua stessa specie. Si tratta di un comportamento presente in molte specie animali, comprese le scimmie, ma anche nella storia del genere umano sia da un punto di vista evolutivo che simbolico. Questo aspetto, infatti, lo considero il grande paradosso del cannibalismo perché da un lato, anche solo menzionarlo stimola sensazioni e reazioni di assoluto ribrezzo e intolleranza, dall’altro però le prove storico-archeologiche sono inconfutabili: il cannibalismo ha accompagnato l’evoluzione della specie umana.
A questo proposito, da un punto di vista antropologico, il cannibalismo sembrerebbe che sia apparso più di 70.000 anni fa. La tendenza cannibalistica dei Neanderthal è stata identificata principalmente grazie all’analisi di teschi su cui erano presenti delle manipolazioni. Famoso è il teschio del Circeo in cui sono stati individuati segni di pratiche rituali funerarie di tipo cannibalistico. Anche sui teschi di Homo pekinensis, risalenti al Pleistocene medio (circa 350.000-450.000 anni) sono state trovate delle fessure e tagli; la prova più evidente del fatto che i nostri antenati fossero dediti al cannibalismo sarebbe il cosiddetto foramen magnum, cioè il foro presente sull'osso occipitale allargato manualmente per estrarre e mangiare il cervello.
Ma il cannibalismo, noto anche come antropofagia, ha caratterizzato anche epoche successive: è stato considerato come uno degli atti tipici della stregoneria, l’accusa con la quale condannare eretici, ma anche uno strumento terapeutico, definito tecnicamente come cannibalismo medico o terapeutico Si tratta di una forma peculiare di cannibalismo dove cuore, midollo e sangue umani venivano ritenuti veri e propri presidi terapeutici, e quindi molto usati nelle pratiche medico-sanitarie. Questa forma di cannibalismo era già nota agli antichi romani i quali erano convinti che l’epilessia si potesse curare succhiando il sangue dalle ferite dei gladiatori. Tale usanza venne mantenuta fino al XVIII secolo. In particolare, si prescriveva l’assunzione di carne umana, generalmente proveniente da morti per decapitazione o impiccagione, per il trattamento dell’epilessia. In Gran Bretagna, addirittura, nacquero i cosiddetti mummy shop, ovvero farmacie che vendevano carne umana mummificata. E sullo scopo terapeutico del cannibalismo, nel suo ultimo saggio Siamo tutti cannibali, uno degli antropologi più autorevoli, Lévi-Strauss, ha sostenuto che il cannibalismo non solo sia presente quotidianamente ma che gran parte delle tecniche terapeutiche che altro non sono che la forma più evoluta del cannibalismo: il trapianto di organi, le trasfusioni, l’impiego di ormoni ipofisari, innesti cutanei o di altre parti del corpo provenienti da cadaveri, ecc. L’obiettivo di Lévi-Strauss, a differenza di altri suoi colleghi, è quello di esorcizzare il concetto di cannibalismo, sottolineando come sia necessario considerare questo fenomeno come “normale” e non come fattore di discrimine fra società selvagge e società civilizzate. Altri suoi colleghi, invece, hanno considerato il cannibalismo o come la manifestazione più evidente della differenza tra i popoli civilizzati e meno civilizzati, o ancora come un mero mito con quale etichettare popoli considerati inferiori.
Nel caso della psicoanalisi, invece, il cannibalismo assume altri significati. Freud lo definisce come la manifestazione più evidente dell’aggressività repressa, che si manifesta, appunto, mediante l’attacco orale, che sarebbe alla base della storia umana e della sua evoluzione, ma al tempo stesso considera l’antropofagia come l’espressione dell’impulso con il quale si intende introiettare l’altro per appropriarsene. Parte di questi atteggiamenti si rilevano nel bambino, durante la fase orale o cannibalica dello sviluppo psichico. L’uomo, ricorda Freud, sin dalla nascita si attacca al seno materno e finché non svilupperà i denti, si limiterà alla suzione, che è comunque fonte di appagamento sessuale per l’infante.
Secondo la criminologia, invece, il cannibalismo rientra nelle cosiddette parafilie ossia condizioni in cui si sviluppano interessi sessuali atipici. In questo ambito il cannibalismo, è correlato ad atti commessi da serial killer, ossia individui, che nella maggior parte dei casi, commettono almeno 3 omicidi, spinti da istinti sessuali deviati.
Da un punto di vista sociologico il cannibalismo ha avuto scarsa attenzione, questo perché la stessa sociologia dell’alimentazione ha avuto un suo riconoscimento formale solo di recente. Uno dei pochi tentativi di analisi sociologica dell’antropofagia è stato proposto da Georges Guille-Escuret e nella sua trilogia Sociologie comparée du cannibalisme, in cui il cannibalismo viene analizzato come un evento sociale endogeno alla società. Il concetto di cannibalismo, da questo punto di vista, ricorda quello di incorporazione della cultura, cioè l'introiezione di ciò che proviene dalla società dentro ciascuno di noi. Ma mangiare in generale è un “fatto sociale”, per dirla in termini durkheimiani, rappresenta, cioè, il massimo grado di espressione del volere collettivo e dell’esigenza di relazionalità. Così la rilevanza sociale dell'alimentazione e del suo ruolo relazionale lo si ritrovano già nel termine compagno, dal latino companio, composto da cŭm, con e pānis, pane; letteralmente, quindi, compagno significa "chi mangia il pane con l'altro". Mangiare diventa essenziale per stare in relazione, ecco perché la nutrizione viene considerata in sociologia come uno dei mediatori più importanti, nonché a fattore di incremento e di strutturazione del capitale sociale, cioè dell’insieme più ampio di relazioni di cui ciascuno gode. Ma il cannibalismo ha anche altri significati sociologici: quelli riconducibili al rito, per esempio pensiamo al processo di transustanziazione e al precetto cristiano di cibarsi del corpo e sangue di Cristo; è all’interno di molti miti, leggende, fiabe, si pensi a: Pollicino, Hänsel e Gretel, il conte Ugolino, ecc.
Nel titolo del mio saggio un altro termine chiave è questioni di genere, da intendere semplicemente come la variabilità con la quale si viene definiti uomo o donna e correlata all’orientamento sessuale. Questi due aspetti sono stati essenziali per il mio lavoro, poiché sono stati utilizzati per scegliere ed analizzare 5 soggetti cannibali: Leonarda Cianciulli la Saponificatrice di Correggio, Andrej Romanovič Čikatilo il Mostro di Rostov, Dmitry Baksheev e Natalia Baksheeva la Coppia cannibale, Jeffrey Lionel Dahmer il Mostro di Milwaukee e Armin Meiwes il Cannibale di Rotenburg an der Fulda, di cui vi parlerò dettagliatamente nella seconda parte di questo post.