Le tecnologie non sono neutrali. La lezione dimenticata del determinismo tecnologico

Il determinismo tecnologico (DT), nella sua forma più pura, è un approccio che vede le tecnologie e le innovazioni come indipendenti dalla più ampie dinamiche sociali.

L’idea è che la tecnologia sia il fattore determinate delle vicende umane e gli sviluppi tecnologici non siano guidati dall’attività umana, ma da una logica interna all’innovazione scientifica.

Un esempio è il concetto di blockchain e cryptovalute che, secondo chi li promuove, sono liberi dalla manipolazione del potere istituzionale e generano effetti sociali in modo autonomo; un secondo esempio è la IA che, secondo alcuni sostenitori  in grado aumentare le capacità umane e di rivoluzionare settori quali la finanza, sicurezza nazionale l’assistenza sanitaria ecc.

I principi del DT sono tre:

  • la tecnologia rappresenta una dimensione esterna rispetto alla società, in grado di agire al di fuori di essa;
  • ogni cambiamento tecnologico produce un cambiamento nelle forme di organizzazione e di interazione sociale;
  • la società si adatta alla tecnologia.

Il DT è stato molto criticato dagli Science and Technology Studies (STS), tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ’80, , ritenuto un approccio obsoleto, se non addirittura sbagliato, e “ridotto allo status di uno spaventapasseri” (Lynch 2008, 10).

Infatti, sociologicamente parlando, risulta difficile sostenere che le innovazioni tecnologiche riescano a plasmare in maniera univoca la nostra vita quotidiana.

Per cui è più interessante impostare delle analisi in cui, si tiene conto di una serie di dinamiche che le tecnologie innescano, senza però farsi affascinare troppo e senza pensare che queste siano le uniche possibili.

Dunque, è più corretto parlare di tre forme di DT:

  • forte: la tecnologia impatta sulla società e rappresenta il principale motore del cambiamento sociale;
  • media: la tecnologia determina lo sviluppo sociale e le possibilità d’azione dei soggetti;
  • leggera: la tecnologia influenza la società e orienta l’innovazione sociale.

Quindi, cosa possiamo salvare del determinismo tecnologico?

Ciò che di buono ha messo in luce il DT è che le tecnologie non sono neutre, ma producono degli effetti. Ovviamente poi possiamo discutere l’intensità di questi effetti. Ma un approccio sociale alle tecnologie deve partire dall’idea che la tecnologia non sia qualcosa di neutrale. Se così non fosse, le tecnologie sarebbero materia solamente per gli ingegneri o tecnologi. Invece, anche gli scienziati sociali possono dire la loro, partendo proprio dall’idea che la diffusione di una tecnologia è legata al proliferare delle dinamiche d’uso.

Quest’ultima idea è stata evidenziata da un altro approccio alle tecnologie: Social Construction of Technology (SCOT). Una delle lezioni fondamentali dello SCOT è che le tecnologie e i loro effetti, vanno misurate sempre in relazione ad altre cose, come l’infrastruttura esistente in un contesto o i gruppi sociali che entreranno in contatto con la tecnologia. Secondo lo SCOT non c’è niente di predeterminato nelle tecnologie; quindi, una nuova tecnologia all’inizio è caratterizzata da un certo tipo di “flessibilità interpretativa” ovvero un periodo in cui alcuni gruppi sociali si approcciano a una tecnologia e ci vedono alcune cose: per alcuni potrebbe essere utile per i propri fini, mentre per altri potrebbe essere pericolosa. Durante questo periodo entrano in gioco diversi “gruppi sociali pertinenti” che cercano di orientare l’artefatto nella loro direzione in base ai loro interessi.

In questo modo si raggiunge una stabilizzazione della tecnologia, incorniciandola, con uno specifico significato d’uso e una forma in grado di tenere insieme le diverse istanze poste dai vari gruppi.

Dunque, guardare alla tecnologia, come fa il DT, come una variabile indipendente che si origina dall’innovazione scientifica e si “impone” agli attori, determinandone le pratiche, le relazioni e le interazioni, risulta troppo radicale. Non è detto che se la tecnologia funziona in un determinato modo, allora le persone dovranno adattarsi e sforzarsi di far funzionare la tecnologia in quello stesso modo.

Risulta difficile pensare che la tecnologia offra determinati input alla società e che questa non possa far altro che adattarsi passivamente. Certo, le tecnologie non sono neutrali, ma diventano quello che sono nel momento in cui gruppi di utenti se ne appropriano, ad esempio un computer può essere utilizzato per lavoro, per lo studio, per giocare, guardare film ecc.

Il punto è che le tecnologie più diffuse sono quelle che vengono utilizzate nei modi più vari, ognuno le usa in base ai propri interessi, problemi, fini e attività quotidiane, permettono dunque una varietà di usi. Di conseguenza l’innovazione vincente non è tale soltanto perché contiene un elemento tecnico migliore o superiore ad altri, ma perché attraverso quell’elemento tecnico riesce a soddisfare una serie di istanze sociali.

Proviamo ora a fare un passo in avanti, attraverso un altro approccio alla tecnologia, l’Actor Network Theory (ANT), ovvero “un semplice metodo per imparare dagli attori senza imporre loro una definizione a priori circa la loro capacità di costruire il mondo” (Latour 1999, 20). Si tratta di un metodo che guarda alla realtà e agli attori senza partire dal presupposto che questi ultimi abbiano un qualche tipo di agency a priori. Attori umani e non-umani sono ugualmente capaci di dare forma ai processi che conducono all’emergere di un’idea, di una conoscenza o di una tecnologia.

Ma quindi in che modo possiamo descrivere il ruolo che hanno le tecnologie?

Una prima risposta è di guardare come gli oggetti intervengono all’interno delle azioni e delle pratiche e come le trasformano. Una nozione classica dell’ANT, è quella di script, ovvero ciò che è inscritto in un artefatto. L’idea è che nel processo di progettazione vengano inscritte, dai progettisti e designer, delle sceneggiature negli oggetti, dei copioni o delle istruzioni su come questi si devono utilizzare; e sono in grado di delineare ruoli, competenze e possibilità d'azione per chi interagisce con tale oggetto. In altre parole, inscrivono una certa idea di utilizzatore e per farlo introducono nell’oggetto alcune caratteristiche che riguardano le competenze dell’utilizzatore e delineano programmi d’azione e ruoli.

A questo punto potrebbe sembrare che lo script rappresenti solamente una serie prescrizioni e proscrizioni inscritte dal progettista e quindi una sorta di determinismo tecnologico, ma non è così. Il concetto di script è un concetto aperto, non ricade all’interno del determinismo tecnologico, è un partire dal presupposto che gli oggetti hanno una loro agency e contribuiscono in vari modi allo sviluppo di una azione, ma non la determinano mai.

Possiamo identificarne due aspetti. Il primo è l’inscrizione: progettisti e designer che tentano di inscrivere un qualche tipo di comportamento o azione nell’oggetto. In questa concezione l’oggetto un po' scompare. Il secondo è ciò che si ritrova inscritto nell’artefatto, ovvero il modo in cui le competenze, le possibili azioni, i ruoli degli utilizzatori sono effettivamente inscritti nell’artefatto. In questo senso l’oggetto assume una sua autonomia di cui dobbiamo tenere conto, il progetto dei designer non esaurisce le possibilità di un oggetto, ma ha una sua autonomia anche perché poi interagirà con altri oggetti e sarà sempre in trasformazione. In altre parole, si tratta di guardare le affordance (Gibson 1979), ovvero tutte quelle possibilità che gli utenti intravedono negli oggetti a partire dalle loro caratteristiche materiali e che non erano state previste dai progettisti. In questo modo gli utenti hanno l’occasione per fare qualcosa di diverso con l’oggetto che hanno di fronte.

In conclusione, la lezione del determinismo tecnologico è valida ancora oggi con alcune sfumature, ma il punto è che le tecnologie non sono neutrali. Gli STS sostengono la necessità di coltivare un approccio più “simmetrico” ai fenomenti sociali guardando alle tecnologie come pratiche sociali, ovvero si comprende l’utilità, la rilevanza, quando se ne osserva l’uso in contesti concreti. L’idea che sta dietro al concetto di affordance è che tutti quanti gli oggetti abbiamo un loro uso e ci pongono dei vincoli, però possiedono delle caratteristiche materiali che possono essere lette da chi li utilizza come inviti ad un uso diverso. La direzione non è quella di fermarsi a guardare la tecnologia-in-sé, ovvero come qualcosa che funziona ed è efficace indipendentemente dai suoi utilizzatori e contesti d’uso pratici. Piuttosto quello di focalizzarsi sulla tecnologia-in-uso (Orlikowski 1992; 2000; Gherardi 2008), ovvero come gli oggetti vengono ri-significati nella pratica, di conseguenza questi non nascono “efficaci” o “sicuri”, ma lo diventano nel momento in cui una comunità di utilizzatori, in specifici contesti d’uso, li costruisce come tali.

 


RIFERIMENTI

Gherardi S. (2008), La tecnologia come pratica sociale: un quadro interpretativo, in Gherardi S. (a cura di) Apprendimento tecnologico e tecnologie di apprendimento, Il Mulino, pp. 7-44.

Gibson J.G. (1979), Per un approccio ecologico alla percezione visiva, Angeli (ed. It. 1995)

Latour B. (1999), On recalling ANT, in “Actor Network Theory and After”, in J. Law, e J. Hassard  (a cura di), Oxford, Blackwell, pp. 15-25.

Lynch M. (2008), Ideas and perspectives, in E Hackett, O. Amsterdamska, M. Lynch e J. Wajcman (a cura di), The Handbook of Science and Technology Studies, Cambridge, MIT Press, pp. 9-12.

Orlikowski W.J. (1992), The duality of Technology: Rethinking the Concept of Technology in Organization, in “Organizational Science”, Vol. 3, n.3, pp. 398-427.

Orlikowski W.J. (2000), Using Technology and Constituting Structures: A Practice Lens for studying technology in organizations, in “Organization Science”, vol. 11, n.4, pp. 404-428.