La conoscenza pratica dei “non esperti”: le empeiria kai tribé e lo strumento della retorica
Con questo terzo post1 andremo a completare la ricostruzione del pensiero di Platone che riguarda la conoscenza finalizzata alla pratica. Nel primo abbiamo visto come egli descrive la facoltà della Memoria e il ruolo che questa svolge nella conservazione del sapere dall’essere umano; nel secondo post abbiamo visto che cosa è definibile come “arte tecnica” (techne) e perciò che cosa sia un sapere pratico strutturato e disciplinato.
Qui ci occuperemo di comprendere meglio quelle forme del sapere pratico che come il sapere tecnico sono il frutto dell’esperienza e guardano all’utilità, ma che, diversamente da questo, non si strutturano in una disciplina e rimangono perciò un “saper fare” di possesso individuale, “al portatore”.
In conclusione verranno proposte al nostro lettore alcune riflessioni e domande che possono essergli di spunto per avviare una propria lettura di questo tema nel mondo attuale.
Le «empeiria kai tribé»2
Nei suoi dialoghi Platone ci avverte che vi sono “tecniche propriamente dette” e altre pratiche che, anche se da molti son chiamate “tecniche”, non lo sono affatto, poiché prive di un rigore disciplinare, ossia di teoria, metodo, pratica e/o finalità produttive precisabili.
Il termine utilizzato per indicare questi saperi pratici ma non tecnici è quello di empeiria kai tribé, ossia quei tipi di esperienza empirica (empeiria) che, grazie all’esercizio (tribé) pratico, vengono raffinati fino ad assicurare al loro esecutore l’ottenimento di un effetto. La loro efficacia o meno viene esperita di volta in volta da chi le pratica, che, attraverso la formulazione di congetture necessarie all’occorrenza, si doterà man mano dell’esperienza bastevole a produrre l’effetto desiderato.
Le empeiria kai tribé sono quelle forme del “saper fare”, possedute da chi viene detto “bravo a fare” qualcosa e che appare agli occhi dei non esperti un “tecnico”, anche se privo di una vera competenza nel campo in cui “fa”, ma ritenuto tale in virtù della sua sola capacità, abitudine e disinvoltura “nel fare”, che ha acquisito autonomamente (senza essere stato adeguatamente formato) esercitandosi nel tempo per “tentativi ed errori”.
Questa è la condizione di possesso della forma di conoscenza empirica più semplice, ossia quella della sola memorizzazione di meccaniche dell’azione in vista della produzione di un effetto.
Platone dedica una riflessione apposita3 a queste forme del sapere perché, per questa loro natura di grado conoscitivo insufficiente perché siano strutturabili in una forma disciplinare, rimangono un semplice “saper fare” frutto dell’esperienza individuale e nulla di più.
Per usare un esempio non platonico, il portatore della sola empeiria kai tribé somiglia al famoso “cugino” che “è bravo a fare”, i cui risultati non sono evidentemente il frutto di una conoscenza tecnica, anche se talvolta (si spera) equipollenti sul piano del prodotto finale. Egli “è pratico”, ma non è “un esperto” o un cosiddetto “professionista”.
Per comprendere meglio questa differenza tra arte tecnica ed “esperienza frutto dell’esercizio”, prenderemo ora in esame tre esempi che ci ha fornito lo stesso Platone nei suoi dialoghi.
Il flautista del Filebo
La “arte” del flautista «armonizza gli accordi non secondo misura, ma secondo congetture dedotte dalla pratica e da tutta la musica» e che «ricerca la misura della vibrazione di ciascuna corda andando per tentativi» (56 a).
Questo flautista a cui si riferisce acquisisce la propria esperienza in chiave dilettantistica. Egli prima prende tra le mani il flauto per capirne la struttura, poi, come ha visto fare ad altri, soffia nell’imboccatura e prova a emettere un suono. Procede sviluppando una sua successione di movimenti che corregge finché corrispondono a una serie di suoni tonali e ripete così l’esercizio fino a memorizzarli. Egli compone la sequenza di gesti - e non di note, visto che non le conosce, né le sa definire – imitando le melodie che ha già udito dai musicisti, forse scegliendo tra quelle che ritiene essere gradevoli in quanto ha udito essere maggiormente apprezzate tra le persone. Quando finalmente il flautista uscirà dal suo privato per esibirsi di fronte a un pubblico, ne guarderà e valuterà la risposta per capire se la propria esecuzione “funziona”, ossia viene da esso accolta favorevolmente.
Ripete poi tutte queste cose dette fino a quando non giungerà a formulare una propria esecuzione (di gesti e soffi!) che avrà come effetto l’approvazione della maggior parte degli ascoltatori che incontra e che, per questo motivo, di esso diranno essere “un bravo flautista”.
Il musicista, diversamente da questo flautista, è invece un vero “teknos”, ossia un esperto, perciò un tecnico professionista dell’esecuzione e della composizione musicale. Questo poiché ha intrapreso un percorso di studi specializzandosi nel tempo sotto la guida dei maestri di musica, perciò dei tecnici esperti che insegnano quest’arte, imparando a conoscere cosa sia la materia sonora nei suoi elementi e la tecnica necessaria a produrre armonie musicali. Inoltre, il musicista ha appreso l’arte attraverso tutti gli strumenti musicali, anche quelli più difficili da suonare e da governare rispetto al flauto.
Platone ci dice che il musicista si differenzia poi a sua volta dal musico, il quale ha invece conoscenza scientifica (episteme) della musica, in quanto si occupa non di produrre le armonie sonore, bensì di conoscere il loro rapporto armonico numerico (Platone,Phil. 17 c - d, cfr. Phaedr. 268 e). Ai tempi di Platone la Musica è infatti, oltre che l’arte della composizione di suoni come è oggi intesa, anche una seconda disciplina che studia le armonie numeriche secondo il rigore dell’aritmetica e del logismos,4 in questo caso nel campo di studio dei matematici.5
In conclusione, il procedere per tentativi senza il supporto di una conoscenza tecnica, fa sì che il flautista del Filebo sia un mero esecutore di gesti e non invece di note musicali, le quali saranno solo una conseguenza del suo soffio nello strumento e del movimento delle sue dita su fori dello stesso, che egli ha imparato corrispondere all’erogazione dei suoni desiderati. Compie tutto ciò pur non sapendo né dare un nome a ciò che fa né una spiegazione tecnica o matematica delle note di cui fa uso.
Il cuoco e il medico del Gorgia
Il medico è colui che si occupa del corpo pensando al bene che deve procurargli, mentre il cuoco ha come scopo quello di procurare al corpo un piacere fine a sé stesso.6
Se l’esempio del flautista pone l’accento sullo scarso rigore e la totale assenza di conoscenza specialistica nel campo di azione in cui egli opera, nell’esempio del cuoco e del medico emerge la problematica del grado di conoscenza che chi opera possiede dell’oggetto su cui agisce.
Entrambi, medico e cuoco, mirano a produrre un effetto sul medesimo oggetto, ossia il corpo, ma ciò che manca nella teoria e nella pratica del secondo è la conoscenza di questo oggetto per ciò che esso è, interessandosi ad esso solo come oggetto che patisce.
Il cuoco ha di mira il procurare la “sensazione di benessere”, il medico quella di ripristinarne il benessere inteso come “salute”.7 Il medico può infatti trovarsi a dover operare in seguito al danno prodotto dagli eccessi del cibo, però, nel suo caso, con una conoscenza rigorosa e “scientifica” del corpo, dunque in coerenza con e nel rispetto dell'oggetto su cui agisce.
La retorica del sofista nel Gorgia
Il buon politico ha di mira la produzione di un effetto tecnico, precisamente quello amministrativo, e utilizza la retorica come strumento per indirizzare i propri cittadini verso il bene derivante dal rispetto per le leggi della città. L’effetto ricercato dal sofista attraverso la retorica è sempre quello di indirizzare il pensiero e le passioni del cittadino, ma non verso un punto preciso. Piuttosto egli ricerca l’accrescimento della propria fama grazie al suo “saper parlare bene”, nel senso del “saper fare” leva sul pensiero del suo uditorio attraverso il discorso parlato, spesso superficiale e privo di contenuti, dunque mirato alla sola produzione di un effetto fine a sé stesso: la persuasione (peithó)8 attraverso l’espediente dell’adulazione (kholekheia) (Gorg. 463 a – b).
Inoltre, se il filosofo si occupa di indagare scientificamente gli oggetti della conoscenza e utilizza la retorica per coinvolgere il proprio interlocutore a partecipare nella costruzione di un pensiero comune, il sofista spesso non conosce ciò di cui parla benché ne parli e guarda all’uditorio solo per monitorare gli effetti che producono le proprie parole.
Il sofista “sa parlare bene” e lo fa perseguendo scopi e fini estranei ai temi di cui parla. Ricerca il favore del pubblico modificando man mano i propri discorsi sulla base degli effetti che le parole hanno su di esso.
Più in generale, leggendo il Gorgia, il Protagora e il Sofista, emerge che il sofista non è un teknos, non essendo in possesso né di un’arte né di contenuti specialistici. Egli possiede le sole strategie discorsive personali che gli sono utili per produrre l’effetto desiderato sul proprio pubblico.
Egli “è bravo a” incantare l’uditorio e vincere con le parole. Solo in questo appare possedere una tecnica.
Alcuni spunti di riflessione guardando al mondo contemporaneo
Ora che abbiamo preso confidenza con il tema delle forme di sapere pratico ma non tecnico, proporrò due campi di riflessione su cui concentrare la nostra analisi: 1) le empeiria kai tribé di oggi e 2) il ruolo odierno della retorica.
1) Sulle forme attuali di empeiria kai tribé abbiamo in parte già suggerito alcuni spunti riflessivi nel post sulla tecnica in Platone, dove proponevo al nostro lettore di considerare le dinamiche di ritorno alle pratiche analogiche contro il diffondersi di quelle digitali e di pensare al ruolo che svolge il fiorente mercato dell’accesso rapido alle conoscenze pratiche, ad esempio i “workshop”, nella formazione di nuove forme del “saper fare”. Ripensiamo ora a questi aspetti nella chiave del flautista del Filebo, ossia a quali siano le forme di conoscenza e competenza possibili per una stessa pratica e quali i percorsi che portano invece a formare i veri saperi tecnici e teorici o il semplice “saper fare”.
2) Il “saper parlare” è sicuramente una dote o una capacità che suscita fascinazione nel prossimo. Questo fenomeno non è cambiato dai tempi di Platone ad oggi e accompagnerà il genere umano probabilmente lungo la sua intera esistenza. Questo è un motivo che mi induce a pensare che sia necessario soffermarsi qualche riga in più su questo tema.
Già ai tempi di Platone, e dunque non solo di recente, la retorica era vista come una pratica ambigua e potenzialmente problematica nel campo comunicativo per la sua capacità alterante e distorsiva. Essa può mutare la direzione che prendono i discorsi in base ai contesti e alle caratteristiche dell’uditorio, divenendo, grazie alla sua forza plasmatrice, un potenziale mezzo di manipolazione degli stati d’animo.
Se il suo utilizzo è di per sé neutro, potremmo invece ricercare le cause del suo risvolto “negativo” o “dannoso” nelle competenze e nelle intenzioni di chi la utilizza.
Benché anche per essa sia possibile astrarre delle “regole”, la retorica rimane forse ancora oggi un solo strumento più che una tecnica. La sua possibilità di utilizzo per fini poco costruttivi potrebbe derivare anche dalle caratteristiche che ne individua Platone: essa è acquisibile attraverso l’emulazione dei discorsi fatti dagli altri (impostazione dei toni, utilizzo di frasi “fatte” o “ad effetto”, riproposizione di contro-argomentazioni e fallacie logiche versatili per ogni “avversario”, etc.) e rafforzabile con l’esercizio autonomo. Tant’è vero che non deve la sua efficacia alla propria applicazione di per sé, mentre è efficace per le doti di chi ne fa uso.
Sempre seguendo Platone, domandiamoci poi se potrebbe essere anche che i suoi risvolti problematici derivino dalla sua intrinseca possibilità di essere acquisita senza il possesso da parte del suo utilizzatore di particolari conoscenze o competenze, o anche dal fatto che la sua efficacia sia completamente svincolata dall’applicazione di regole e dall’esistenza di reali contenuti interni al discorso che dirige.
Nell’epoca in cui visse Platone, quella della grande esperienza democratica della città di Atene, il sofista è stato il massimo rappresentante di questa problematica incontrollabilità degli scopi, dei fini e degli effetti della retorica, tanto che l’appellativo e i termini che da esso abbiamo derivato hanno preso oggi una valenza negativa. Pensiamo a quando si aggettiva qualcosa o qualcuno col termine “sofisticato”, o si parla di “sofismi” e “sofisticazioni”: tutti questi termini si riferiscono a forme di modificazione, alterazione e complicazione inutili e/o potenzialmente dannose.
Cosa potremmo fare qualora volessimo sottrarci a diventare noi stessi un facile bersaglio di persuasione delle parole più che dei contenuti di un discorso?
Conclusioni
Oggi, questo problema dell’efficacia della retorica di stampo sofistico e del diffondersi di forme di approccio dilettantistico (verbale e fattuale) alle pratiche che richiederebbero la preparazione di un esperto (il tecnico, lo scienziato e, Platone direbbe, anche il filosofo), sembrerebbe essere correlato con l’instaurarsi di ritmi sempre più frenetici a cui l’esperienza deve adeguarsi a farsi spazio. Per spiegarmi meglio, il rispettivo decremento del tempo che l’individuo può dedicare all’approfondimento delle proprie conoscenze potrebbe andare a discapito di un percorso continuativo che gli permetterebbe di passare dall’essere un semplice uditorio fino a quello di studioso esperto, passando per i campi applicativi del “saper fare” e della “conoscenza pratica tecnica”, per culminare infine nel possesso reale di un bagaglio di conoscenze.
Il “tutto e subito” sembrerebbe essere preferito al “più lento” percorso di studi e di ricerca dedicato.
Pensiamo a come questa “preferibilità” possa essere corrisposta e nutrita dalle nuove forme e proposte di veicolazione rapida del sapere, e a come queste ci possano potenzialmente portare ad essere sempre più spettatori e utilizzatori improvvisati di strumenti tecnici che reali conoscitori.
In proposito è interessante riflettere su tutti quei formati digitali (facilmente accessibili e ri-producibili) che sono impostati perché l’utente possa potenzialmente assorbirne il contenuto in modalità passiva (facilmente fruibili), rapida e concentrata, quali sono le cosiddette “App” dedicate, i podcast, i documentari, gli short video (reel, shorts, etc.), le video-serie e i tutorial sulle piattaforme di streaming più popolari, gli ormai consolidati videocorsi e così via.
La richiesta di poter apprendere rapidamente è tale per cui i servizi di distribuzione di questi contenuti mettono a disposizione anche le funzioni di riproduzione velocizzata a 1.5x, 2x, 4x.
Ciò che possiamo chiederci è in che modo permangano ancora oggi i livelli della conoscenza e i rispettivi “ranghi” dei loro possessori (l’umanista, lo scienziato, il tecnico, il “bravo a fare”, lo spettatore) identificati da Platone. Quanto i soli “aver udito qualcosa”, “saper fare” e “saper parlare” avanzano tra le preferenze degli individui a discapito del formarsi di una teoria e una pratica proprie di una “conoscenza autentica”?
E ancora, la diffusione delle empeiria kai tribé a discapito delle forme della conoscenza approfondita è dovuta anche alla appetibilità del proprio “raggiungere comunque un risultato”? Di possesso di una conoscenza “quanto basta”, bastevole a farci produrre immediatamente un effetto che ci permetta anche di poter dire di noi “saper fare” qualcosa?
NOTE
1 I precedenti due post sono 1) “La memoria e la sua corruzione nell’era digitale - A confronto con il pensiero di Platone“ e 2) “La conoscenza tecnica – Meditazioni a partire dal pensiero di Platone".
2 «empeiria kai (tini) tribé» è una definizione che compare esplicitamente sia nel Gorgia (463 b) che nel Filebo (55 e). Il tema compare anche nel Fedro (270 b).
3 I passi di riferimento Phil. 55 e - 56 a, Gorg. 500 e - 501 a, sviluppano e affrontano parallelamente, ma con una sorprendente coincidenza, la differenza tra techne ed empeiria.
4 Disciplina matematica che si occupa dello studio dei rapporti numerici. In senso matematico “Logos” significa “rapporto”, “relazione” o “proporzione”.
5 La “Musica” così intesa è una disciplina teorica e scientifica in senso forte, che rientra, assieme all’aritmetica, alla geometria piana, alla stereometria (geometria delle figure solide) e all’astronomia, nella lista delle discipline matematiche fatta da Socrate e Glaucone nella Repubblica (533 c – d).
6 Parafrasi dei passi in Gorg. 465 d - e, 500 e - 501 a.
7 Il medico non corrisponde esattamente a ciò che intendiamo oggi con questa professione, piuttosto egli è una sorta di filosofo dell’oggetto anima-corpo, che ne studia gli effetti (le malattie) per comprenderne le cause. Chi si occupa invece delle pratiche per il mantenimento della salute è il maestro di ginnastica, che ha come obiettivo non quello del ripristino ma quello del mantenimento della salute.
8 Nel Gorgia 453 a, si arriverà ad affermare che la retorica non è di per sé un’arte tecnica e che il fine della retorica è la sua stessa essenza: la persuasione di un pubblico.
La conoscenza tecnica - Meditazioni a partire dal pensiero di Platone
In molti conoscono l’esistenza di un dialogo chiamato “Apologia di Socrate”. Al suo interno, oltre al “Socrate che sa di non sapere”, viene reso noto il particolare valore che Platone attribuisce alla conoscenza posseduta dagli artigiani. Ciò avviene nell’ultimo dei tre momenti che Socrate afferma di aver passato alla ricerca degli ateniesi ritenuti “sapienti”.
Dopo aver messo alla prova i politici e i poeti, egli dice:
«Alla fine andai dai lavoratori manuali (cheirotechnas): mentre per conto mio ero consapevole di non conoscere praticamente nulla, costoro prevedevo di trovarli in possesso di parecchie preziose conoscenze. E qui non mi sbagliavo, nel senso che possedevano nozioni a me ignote e in ciò erano più sapienti di me». (Apol. 22 c – d)
Differenza tra “tecnica” e “scienza”
Per Platone esiste un genere di conoscenza unicamente umano, perciò corruttibile1 e quindi di altro genere rispetto alla più famosa forma della reminiscenza,2 un genere di conoscenza analogo a quella del noto essere divino chiamato Demiurgo presente nel dialogo Timeo: una conoscenza che permette “il fare”.
Se il termine “technikoi” indica in generale gli “esperti ”, il termine “demiurgos” indica il “lavoratore pubblico” (l’artigiano libero, non schiavo), mentre i ”cheirotechnas”, quelli di cui parlava Socrate, sono più in generale tutti coloro che producono attraverso le attività manuali. Il loro sapere è tipico dell’essere umano “di ogni giorno”, cioè che interagisce e apprende attraverso la forma di conoscenza che è l’opinione (doxa), di genere meno precisa rispetto a quella dei matematici e dei filosofi, chiamata invece episteme (scienza).
In questi termini, il sapere pratico, come quello scientifico, si genera a partire dall’esperienza del mondo fisico e materiale ma, a differenza del secondo, conclude il proprio percorso nella manipolazione delle cose su questo stesso piano fisico, ponendosi come scopo l’opera di azioni mirate a produrre effetti e oggetti utili sul piano della vita materiale. Diversamente l’episteme procede dall’osservazione e interazione col mondo fisico verso la conoscenza di enti meta-fisici, ambendo a intuirne i modelli,3 i quali comprendono anche le leggi che governano la realtà fisica. Le scienze producono conoscenza sul mondo come insieme complesso e strutturato, dunque prodotti del solo intelletto e non materiali.
Questa differenza è in qualche misura la stessa che ancora oggi troviamo tra “tecnica” e “scienza”. Solo in tempi molto più recenti queste due hanno sviluppato una reciproca interdipendenza quasi senza soluzione di continuità. Ma questo rimarrà per ora solo uno spunto di riflessione suggerito al nostro lettore.
Caratteristiche del “sapere pratico” e particolarità della tecnica
Rimanendo ancora con Platone, l’utilità (opheleia) è sia l’elemento distintivo che il coronamento stesso delle attività produttive proprie delle forme di “sapere pratico”. Agli occhi del Filosofo sono però più le technai (discipline e arti tecniche) a contraddistinguersi per la «utilità per la vita»4 che le altre forme di conoscenza pratica.
L’insieme completo delle forme di sapere rivolte al mondo materiale è infatti più ampio e comprende anche le empeiria kai tribé, che per semplicità tradurremo come “esperienze frutto della pratica”. Queste sarebbero l’insieme di quei “saper fare” non governati dal rigore disciplinare. Ma ne tratteremo in un post dedicato.
Per ora, a solo titolo di esempio, pensiamo a chi “è bravo a fare”5 ma non per questo è un esperto (technos) del campo in cui sa invece solamente districarsi. Questo “saper fare” nelle sue declinazioni è una forma del sapere “al portatore”, posseduta dai singoli individui che mostrano avere una certa disinvoltura e/o dimestichezza “nel fare” cose specifiche.
Ciò su cui dobbiamo qui focalizzarci è che la differenza tra technai ed empeiria kai tribé risiede nel modo in cui esse procedono a ottenere un risultato. Le prime lo ottengono attraverso un rigore simile a quello scientifico, perciò strutturato e disciplinato attraverso il metodo della misura e del calcolo, mentre le seconde devono la propria efficacia alla semplice pratica di azioni che l’individuo che le compie ha imparato “per esperienza” essere utili all’ottenimento di un effetto desiderato.
Le technai dunque mirano alla produzione del proprio effetto a partire da una conoscenza riflessiva dell’intelletto nella forma della retta opinione,6 tratta, finalizzata e combinata all’esperienza empirica (empeiria).
Le vere discipline tecniche inoltre generano propri modelli su cui basare la produzione e proseguire la propria ricerca sperimentale. Va notato infatti che tutti gli artigiani si avvalgono di progetti-modelli di partenza per realizzare i propri prodotti (sedie, abiti, calzature etc.); come anche l’architetto progetta lo spazio secondo misure e calcoli precisi, vincolato per la sua realizzazione alle proprietà della materia costruttiva.
Quello del “tecnico” in generale è dunque un sapere misto di esperienza, metodo e teoria, che muove tra gli estremi della doxa e della episteme. Ѐ un sapere insegnabile e quindi oggetto di apprendimento, che per essere ottenuto dunque necessita di esercizio, pratica, sperimentazione e possiede uno scopo produttivo: produce utilità sul piano fisico.
Questo processo conoscitivo pratico determina quelle forme del sapere che confluiscono nelle discipline tecniche, ossia quelle che dotano l’esperienza sensibile di un grado di articolazione teorica e strumentale forte, rivolgendosi all’attività pratica.7
Spunti di riflessione sul mondo della tecnica oggi
Venendo ora a noi, possiamo trovare in questa analisi di Platone molti punti in comune con il modo attuale di concepire e intendere gli elementi distintivi della tecnica rispetto alla “scienza pura”, tanto da aprirci diverse prospettive di riflessione.
Con ogni evidenza il contesto della cultura tecnica è oggi ampiamente mutato. Possiamo notare per esempio che il crescente trasferimento della pratica produttiva dalle mani dell’artigiano verso tecnologie e macchine complesse e automatizzate, per la loro capacità di facilitare, razionalizzare e potenziare la produzione, è sicuramente preferito per fornire una risposta migliore in termini di produzione quantitativa e temporale. Ѐ quel valore che che oggi definiamo “volume della produzione”.8
Questi strumenti complessi sono anch’essi un prodotto della tecnica, sono prodotti per l’appunto tecnologici, e la loro complessità cresce con l’accrescersi della complessità tecnica, che ne ha infatti permesso la loro progettazione e costruzione.
Ma, e ci sono diversi “MA”, allo stesso tempo ciò comporta inevitabilmente che, uscendo dal dominio delle mani dell’artigiano o comunque sfuggendogli dalle mani per la loro complessità d’utilizzo (per cui saranno necessari ulteriori nuovi ruoli “tecnici”), questi strumenti sono in grado di soppiantare le forme della conoscenza individuale specializzata precedente, tramandata attraverso l’oralità e tramandabile attraverso il coinvolgimento pratico attivo.
Il tecnico nel senso professionale è dunque oggi sempre più un “technikos”, ossia uno specialista. Nel nostro ultimo esempio è “un esperto” di strumenti, macchine e istruzione di processi complessi, più che un “cheirotechnos” o “demiurgos”, ossia un lavoratore manuale esperto. Ciò sposta il tecnico verso forme di conoscenza specialistica di "pratica teorica" e nel ruolo di esecutore di singoli processi più che un progettista “con le mani in pasta”.
Dall’altro lato, una reazione alla produzione così impostata e spersonalizzata è la nascita da parte dei singoli individui di forme d’interesse per le pratiche manuali contro quelle automatizzate e per quelle analogiche contro la sempre più diffusa cultura digitale.
Queste fascinazioni per l’attività pratica diretta le vediamo spesso in opera sia nel campo artistico che in quello dilettantistico, con le conseguenti e rispettive aperture di nuove nicchie di tendenza. Così sottratte al circuito di tramandamento diretto obbligato dalla necessità produttiva, queste conoscenze pratiche finiscono per far ricadere la tipologia di conoscenze del loro “portatore” più nel campo di quelle empeiria kai tribé a cui abbiamo accennato che in quello delle technai. Proviamo ora a pensare a quanti eventi vengono creati oggi con l’intento dichiarato di introdurci al mondo della auto-produzione manuale attraverso brevissime esperienze temporali, quali sono i corsi o i “workshop”.
La caratteristica corruttibilità del sapere pratico che individua Platone diventa maggiormente evidente oggi, in un’epoca storica in cui si assiste alla continua interruzione della linea di trasmissione continuativa di conoscenze disciplinari appartenenti al mondo pre-industriale.
Individuarne i motivi è sicuramente un lungo lavoro che non possiamo qui affrontare, ma in sintesi possiamo affermare che questa perdita dei saperi pratici si debba non tanto a una loro intrinseca “obsolescenza” o al loro “superamento” sul piano del sapere tecnico, piuttosto ciò parrebbe avvenire sul piano della sostituzione tecnologica dell’artigiano per i motivi preferibili di sopra detti.
Potremmo affermare anche che, questo fenomeno della perdita e corruzione dei saperi tecnici pre-industriali, non possa derivare esclusivamente dal loro superamento sul piano della attendibilità del “sapere” in sé preso, poiché il più di queste forme tecniche del passato possiedono di fatto un percorso di affinamento e collaudo nettamente più lungo e verificato (esperito) rispetto ai metodi, ai materiali, alle tecniche e alle tecnologie che si sono affermate solo recentemente, nella nostra epoca contemporanea.
Altrettanto si può confermare ancora oggi come intrinseca e ineliminabile quella natura corruttibile che Platone affermava essere propria di queste forme del sapere pratico tecnico. Queste, infatti, se non vengono tramandate, muoiono con i singoli esseri viventi umani che ne sono portatori-detentori. Il loro recupero futuro sarà perciò tardivo, debole o esposto al dilettantismo.
In tal proposito possiamo aggiungere che i contenuti di queste forme del sapere, anche se messi materialmente per iscritto, non potranno per loro natura sopravvivere alle singole vite degli stessi uomini che ne sono detentori praticanti e alla loro personale memoria, laddove si perda quella parte “pratica” da parte di nuovi eredi diretti di questi saperi. Diverrebbero così testimoniate ma anche quel che si dice “lettera morta”.
NOTE
1 Gli esseri umani sono mortali e tutto ciò che gli appartiene come attributo umano è di per sé corruttibile. Nel precedente post “La memoria e la sua corruzione nell’era digitale - A confronto con il pensiero di Platone” sottoponevo a chi ci legge la complessa questione della Memoria e della sua corruttibilità nel pensiero di Platone. In questo presente post emergerà con maggior evidenza il senso della scelta di presentare un tema così complesso. Platone attribuisce infatti ai “saperi pratici” (definizione di comodo e non platonica) la condizione di corruttibilità. Ed è proprio il tema della corruttibilità di un sapere che il lettore dovrà tenere presente mentre affronterà ciò che troverà qui proposto.
2 La reminiscenza o anamnesis è quel processo di risveglio della memoria dell’anima immortale, perciò che rimane identica al di là delle incarnazioni di ciascun vivente mortale. Questa memoria immortale si sopisce con l’unione dell’anima immortale a un corpo fisico (= incarnazione) e il suo contenuto si riferisce a quelle idee di alto grado metafisico, quali sono il Bene, il Bello, la Giustizia etc..
3 “Idea” o “eidos” significa per l’appunto “modello”.
4 Esplicitamente scrive Platone nel Gorgia che «si occupano della nostra vita fisica» (518 a) , costituendo di fatto veri e propri «sistemi che preparano alla vita» (500 b). Ciò emerge anche in particolare nei passi Gorg. 464 b - 466 a; Phil. 58 c, 63 a; Theaet. 177 e.
5 Chi dice cose apparentemente corrette può essere un sofista e non un tecnico o uno scienziato. Chi esegue belle armonie può essere un musico ma non un musicista. Chi sa creare belle pietanze può essere un cuoco ma non un dietologo. Insomma, non sempre chi appare padroneggiare un argomento o una pratica lo fa sulla base di una conoscenza strutturata, rigorosa, “disciplinata”.
6 La “retta opinione” è quella forma di conoscenza che deve la propria corrispondenza al mondo fisico per una corretta intuizione, nel senso che “ci azzecca” rispetto all’oggetto di cui si occupa. In breve, si dà retta opinione quando per “averci visto bene” o “averci dedicato particolare impegno sperimentale” si ottiene un risultato ricercato. Ad esempio, anche i politici che reggono le città in modo retto lo fanno non per scienza ma per retta opinione, afferma Socrate in Men. 99 a – e.
7 Nella lettura che dà Platone, questo sapere misto è in generale quello che esprime la condizione dell’essere umano, del vivente mortale le cui funzioni riflessive, a partire dalla episkepsis («indagine» o «valutazione») e poi col logismos (facoltà del calcolo e della misurazione), sono volte al campo operativo sul solo piano empirico.
8 Il “volume della produzione” è quel valore complessivo di beni e servizi che un'azienda è stata in grado di produrre con le risorse disponibili in un determinato periodo di tempo. Più aumenta, più è possibile abbassare il costo medio di ogni singola unità di prodotto, rendendola più competitiva sul mercato economico.
La memoria e la sua corruzione nell’era digitale - A confronto con il pensiero di Platone
Immagine: Incendio della Public Library di Los Angeles del. 29 aprile 1986
Se ancora oggi Platone viene inquadrato come filosofo sradicato dalla concretezza del mondo e proiettato nell’Iperuranio, ciò è dovuto perlopiù alla ormai superata (ma ancora presente) visione diffusa dalla formazione scolastica ordinaria. Invece, la filosofia di Platone è profondamente radicata nel mondo fisico e materiale.
Della “memoria”, in Platone, è noto che ve ne sia un genere immortale, il quale provvede alla reminiscenza (anamnesis) degli oggetti intelligibili. Meno noto e poco esplicito nei dialoghi è invece l’altro genere, quello della memoria “mortale” (non è questo il termine platonico), inteso come proprio della condizione incarnata dell’Anima immortale in un vivente (zoòn).
La Memoria (mneme) è una delle facoltà dell’anima, quella di imprimere, tracciare o racchiudere nella forma di ricordo (hypomnema) le informazioni che otteniamo da oggetti incontrati attraverso l’esperienza empirica. Essa è l’insieme di ciò che si è sedimentato nell’anima a partire dalle sensazioni memorabili, prodotte dall’esperienza, che facciamo di oggetti che esistono fisicamente nel mondo empirico (il processo completo è esposto nel discorso fisiologico contenuto nel Timeo[1]).
Il tema che ci interessa indagare in questo post è quello della “volatilità” del sapere in Platone, per produrre nuovi spunti di riflessione utili nel dibattito odierno.
La reminiscenza (anamnesis) è un’operazione prodotta dalla sola Anima immortale. Più propriamente essa è una forma del ri-memorare oggetti visti nella condizione disincarnata. L’operazione dell’apprendimento (mathesis) di nozioni avviene, invece, durante la vita e il contenuto di una memoria “mortale” (il ricordo) può dissolversi irrimediabilmente. La memoria nella sua totalità cessa definitivamente la propria esistenza con la morte del vivente che lo possiede, perciò con lo scioglimento dei vincoli tra l’anima e il corpo.
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In primo luogo possiamo affermare l’esistenza di una memoria “mortale” nel pensiero di Platone poiché non ci è pervenuta nessuna testimonianza o accenno a proposito della possibilità di reminiscenza di ricordi appartenenti a vite passate - come invece è presente nelle dossografie pitagoriche[2], che Egli conosceva e custodiva gelosamente nella propria biblioteca. In secondo luogo, nei dialoghi che affrontano problemi legati sia alla reminiscenza che alla metempsicosi, troviamo l’idea che a ogni nuova incarnazione debba esservi un “reset” della memoria in relazione alla vita empirica (si veda nello specifico il “Mito di Er”[3])
Parrebbe anche che, sul piano mortale, le conoscenze pratiche e dell’esperienza empirica siano più durevoli rispetto a quelle epistemologicamente superiori (“scientifiche”) del filosofo o del matematico (che hanno come proprio oggetto ultimo gli intelligibili).
Questo lo si può dedurre in particolare da un passo del prologo drammaturgico del Timeo. Qui Crizia il Giovane riporta un racconto che apprese da bambino, in cui Solone incontrò in Egitto un sacerdote che così affermava:
«“Siete tutti giovani d’animo (voi greci)”, rispose il sacerdote, “perché non avete nelle vostre anime nessuna opinione antica trasmessa attraverso una tradizione che proviene dal passato né alcun sapere ingrigito dal passare del tempo».
Prosegue poi con la motivazione di questa brevità della memoria collettiva dei greci:
«ogni cosa viene registrata, fin dall’antichità, nei nostri templi e conservata alla memoria», mentre in Grecia «a intervalli regolari di tempo, come una malattia, torna il flusso del cielo che vi inonda e non lascia illesi fra voi che gli illetterati e i nemici delle Muse (gli incolti), sicché ricominciate nuovamente dal principio, come tornati giovani». Per di più, aggiunge il sacerdote: «nel corso di molte generazioni, i sopravvissuti sono morti senza aver fissato la loro voce nella scrittura». (Tim. 22 d – e)
In questo passo possiamo individuare almeno sei punti ri-attualizzabili al giorno d’oggi:
- la scrittura esprime qui il suo ruolo di strumento tecnico corruttibile ma preservabile dalla distruzione, perciò tramandabile;
- la scrittura è uno strumento tecnico ausiliario, che richiede una stabilità materiale continuativa della società per essere mantenuto e motivato nell’uso ordinario;
- il vivente mortale, se non ha né la possibilità né la premura di tramandare il prodotto della propria conoscenza, non conserverà un sapere collaudato da mettere a disposizione dei posteri;
- la condizione del dopo-catastrofe è analoga a un “momento zero” della memoria mortale, un “cominciare nuovamente da principio”;
- i saperi pratici “degli illetterati e degli incolti” sopravvivono più facilmente rispetto a quelli di filosofi e scienziati, propedeutici a porre le basi di quella stabilità materiale che rende possibile l’accumulo del sapere;
- l’accumulo di un sapere avanzato e complesso, come quello “scientifico” (episteme), non è necessario alla vita, ma è un “in più”.
Platone ci indica anche che, quando si sia memorizzata un’informazione, la sua durevolezza dipenderà non solo dalle condizioni in cui il suo proprietario la custodisce e preserva, ma anche da come egli l’ha ottenuta. Ad esempio, Crizia il Giovane racconta una storia di cui ha acquisito un ricordo “vivido”, in quanto giovane, attento e partecipativo nel momento del suo apprendimento[4]. Un caso diverso è invece quello di Fedro che, nel dialogo omonimo, deve confrontarsi con un’opera scritta che necessita di rileggere più volte per ricordarla “alla lettera” al fine di tenere il proprio discorso[5].
Nel primo caso, quello di Crizia, la qualità del ricordo è dovuta alle caratteristiche che contraddistinguono il momento in cui egli ha appreso un’informazione, ossia la pregnanza dell’esperienza di apprendimento. Nel secondo caso, quello di Fedro, la qualità della formazione del ricordo sarà dovuta all’ausilio di strategie mnemotecniche, quali la rilettura e la ripetizione a voce alta.
Per concludere, il problema della conservazione, del tramandare e della possibile perdita della memoria (nel senso più ampio che comprende storie, tradizioni, tecniche e conoscenze) è un fenomeno oggi ancora più complesso.
In particolare se guardiamo al fenomeno di progressiva sostituzione dei mezzi di trasmissione “tradizionali” dell’oralità e della scrittura manuale in favore della digitalizzazione dell’informazione.
Quante tipologie e forme di “memoria” abbiamo a oggi sviluppato e quali si stanno depotenziando o stanno scomparendo?
Quante forme della scrittura possediamo e quali competenze sono necessarie per farne uso?
Quanti livelli di linguaggio e quante forme di linguaggio esistono per la sola codificazione informatica dell’informazione?
Quali i pericoli a cui si espone la loro conservazione?
Ai cataclismi menzionati dal sacerdote egizio che ha incontrato Solone, evidentemente presenti e comunque imprevedibili ancor oggi, quali si aggiungono?
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Ovviamente, sono domande complesse che richiedono risposte altrettanto articolate. Ad esempio, per i supporti di archiviazione digitale, da cui oramai dipendiamo largamente, sono deleteri i fenomeni elettrici, magnetici ed elettromagnetici, i quali sono tutti in grado di cancellare, corrompere o rendere inaccessibili, se non addirittura irrecuperabili, le informazioni registrate.
La stessa obsolescenza delle tecnologie e delle tecniche di conservazione e riproduzione dell’informazione, giorno per giorno avvia verso la fine la riproducibilità delle precedenti forme di “memoria”, sia collettiva che individuale (foto, video, documenti, scansioni di immagini, etc.). Gli attuali dispositivi che possediamo saranno sempre meno reperibili con l’avanzare di nuove tecnologie e dei relativi sistemi che ne permettono il funzionamento?
I dispositivi attualmente in uso, per quanto collaudati, non saranno un giorno più compatibili con quelli più avanzati, per protocolli di scrittura e lettura?
Saranno reperibili le tecnologie di giunzione che permettono di interfacciare fisicamente vecchi e nuovi dispositivi di archiviazione di memoria?
Le tecnologie di traduzione e conversione reciproca tra vecchi e nuovi protocolli di archiviazione dell’informazione saranno ancora implementate sui nuovi dispositivi o saranno ancora reperibili e adoperabili?
Quali altre problematiche sono riscontrabili o sono di imminente larga diffusione?
La memoria è un affare complesso, sia individuale che collettivo.
NOTE
[1] Tim. 42 d - segg. e 69 c - segg.
[2] Centrone, B. 1996, Introduzione a i pitagorici, Editori Laterza, Roma-Bari, pp. 52-61
[3] Resp. 614 b - 621 d
[4] Tim. 26 b
[5] Phaedr. 228 a