Tra qualche giorno, metà di noi si appresterà ad andare a votare per il rinnovo del Parlamento Europeo.
Metà perché, nella tornata precedente, non andò a votare il 49% degli aventi diritto, con rilevanti differenze tra i singoli Stati che compongono l’Unione Europea: la palma d’oro (si fa per dire) dell’astensionismo andò alla Slovacchia (75%); l’Italia si collocò poco sotto la media europea (45%); il più “virtuoso” il Belgio (11%). E per questa tornata i sondaggi danno l’astensionismo in aumento.
Le politologhe, nel corso degli anni, hanno indicato diverse cause. Prima fra tutte, la “crisi della rappresentanza”. Per cui l’astensionismo alle elezioni europee è in linea con una tendenza più generale, che tocca anche gli Stati nazionali, le elezioni regionali e locali.
Ma c’è anche un’altra ragione. Più profonda. E l’averla trascurata sin dall’inizio ha decretato il fallimento dell’intero progetto dell’Unione Europea. Tracollo che nessun curatore fallimentare ha ancora certificato, ma che (a me) pare evidente nelle pratiche dei singoli Stati e dei partiti presenti in essi.
Non sono un politologo o un sociologo politico. Per cui le mie riflessioni non nascono da quelle competenze (che non ho) ma da un’analisi socio-linguistica (approccio che insegno nei miei corsi).
Le grandi potenze
L’Unione Europea aspira ad essere una grande potenza, al pari degli USA, Cina, Russia. Altre nuove (potenziali) grandi potenze si stanno affacciando: Brasile, India, e forse Mondo Arabo.
Cos’hanno in comune queste grandi potenze che l’Unione Europea non ha? Una lingua comune.
In questi Paesi, le persone possono (potenzialmente) intendersi perché (quasi) tutte parlano l’inglese, il cinese, il russo, il portoghese, l’hindi e l’arabo moderno standard (che non è mai madrelingua di nessuna arabofona, ma il suo apprendimento avviene seriamente nella scuola). In India, paese con una grandissima diversità culturale, pur avendo ventuno lingue a livello dei singoli stati federati, ha sempre la possibilità di usare l’hindi oppure l’inglese (come lingua ufficiale sussidiaria).
Senza una lingua comune non può esistere a lungo uno Stato o una Confederazione. Si dissolverà a breve.
Ci sono ovviamente delle (piccole) eccezioni: la Svizzera non ha una lingua comune; tuttavia, quando due svizzere si incontrano parlano in francese oppure in tedesco (lingue che hanno imparato seriamente a scuola).
Una lingua comune
Nella (breve) storia dell’Unione Europea non ci sono mai stati tentativi seri di dotare questa federazione di una lingua comune. I tentativi seri sono andati in altre direzioni: legislative (leggi comuni), economiche (mercato comune), politiche (parlamento europeo). Per cui si è ritenuto (in modo miope) più importante costruire una moneta comune (l’euro) piuttosto che una lingua comune. Decisioni guidate da un pensiero solo razionale, che si scontra con le caratteristiche delle culture.
A suo tempo, le decisore politiche avevano davanti a sé almeno due strade per costruire una lingua comune: puntare su una lingua pianificata (l’esperanto) oppure adottare una lingua commerciale (l’inglese).
La prima, sviluppata tra il 1872 e il 1887 dal medico e linguista polacco Ludwik Lejzer Zamenhof, aveva “lo scopo di far dialogare i diversi popoli cercando di creare tra di essi comprensione e pace con una seconda lingua semplice, ma espressiva, appartenente all’umanità e non a un popolo. Un effetto di ciò sarebbe stato quello di proteggere gli idiomi “minori”, altrimenti condannati all’estinzione dalla forza delle lingue delle nazioni più forti. Per questo motivo l’esperanto è stato ed è spesso protagonista di dibattiti riguardanti la democrazia linguistica (…) Dopo rapida espansione del movimento esperantista in molti Paesi, esso subì vari duri colpi nel corso della Prima guerra mondiale, ma soprattutto nella Seconda guerra mondiale a causa di Hitler, che riteneva l’esperanto la lingua degli ebrei (Zamenhof era ebreo), ma anche nella Russia di Stalin (e più recentemente, nell’Iraq di Saddam Hussein). Nel secondo dopoguerra (eccetto dove gli esperantisti erano ancora perseguitati) il movimento riprese vigore, ma subendo la forza a livello internazionale del francese prima e soprattutto dell’inglese poi, data la forza e l’influenza degli Stati Uniti d’America sulla scena internazionale”.
Oggi l’esperanto, nonostante i tanti proclami e risoluzioni dell’UNESCO, non sembra aver nessuna possibilità.
A questo punto, potrebbe essere l’inglese ad assumere il ruolo di lingua unificante.
Tuttavia, nell’Unione Europea solo il 10-20% parla l’inglese in modo fluente (requisito necessario per intendersi reciprocamente) e per lo più sono persone altamente scolarizzate.
Se l’Unione Europea facesse ora un investimento serio scolasticamente, forse tra 50 anni avremmo una federazione con una lingua comune, come le grandi potenze. Ma a parte il fatto che, con la velocità dei cambiamenti attuali, è inimmaginabile un tempo di attesa così lungo, ci sono molte forze che remano contro questo progetto (che comunque sarebbe discutibile, dal sapore neo-coloniale): le popolazioni degli Stati membri (in primis francesi e italiane) non sono così innamorate di questa lingua, anzi sono abbastanza restie ad impararla; inoltre, lo stato membro (UK) in cui l’inglese è madrelingua ha da poco… abbandonato l’Unione. Una beffa.
Le conseguenza dell’assenza di una lingua comune
La mancanza di una lingua comune, la base principale su cui intavolare una discussione, uno scambio di idee, una comprensione reciproca, rinforza le identità nazionali. E, a cascata, produce tante conseguenze nefaste. Che sono un po’ sotto l’occhio di tutte:
- 3 parlamenti (Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo) al posto di 1 solo;
- la possibilità di veto da parte di uno stato membro (e come se la Florida avesse potere di veto alle decisioni internazionali degli US);
- nessuna politica estera comune su conflitti come (ad esempio) Libia, Bielorussia, Grecia-Turchia, Israele-Palestina; ad eccezione (chissà per quanto?) dell’Ucraina-Russia). In quei conflitti gli Stati membri appoggiano contendenti diversi, a tal punto che pochi giorni fa Spagna e Irlanda hanno riconosciuto lo Stato della Palestina (l’avrebbe fatto la Florida?);
- nessuna politica militare comune (ogni Stato dell’UE si arma e vende armi per conto proprio);
- nessuna politica fiscale comune (regimi fiscali diversi a Malta, Irlanda, Paesi Bassi… — questo, a onor del vero, avviene anche negli US);
- nessuna politica commerciale comune (ogni Stato UE compete con gli altri per vendere i propri prodotti e stipula contratti commerciali in modo indipendente);
- ecc.
Per cui l’Unione Europea, come progetto culturale, è fallita.
Rimane il progetto economico, legislativo e politico. Ma senza una lingua comune sarà sempre in affanno e non potrà competere con le altre grandi potenze.
Io comunque, a scanso di equivoci, andrò a votare.
P.S. Ho usato il femminile sovraesteso, “per vedere l’effetto che fa”.
Autore
-
Professore ordinario di Sociologia delle Scienze e delle Tecnologie, presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Per molti anni si è occupato di epistemologia e metodologia della ricerca sociale. Attualmente si dedica allo studio dei “sensi sociali” e di controversie scientifiche nel campo della salute. Per le sue pubblicazioni cliccare il link qui sotto.
Concordo totalmente, anche se a pesare credo siano anche secoli di conflitti e stratificazioni di stereotipi. Sono meno pessimista per il futuro, la generazione Erasmus è molto europea, anche se è una minoranza perché non tutti si possono permettere gli scambi culturali.
Comunque anch’io andrò a votare, turandomi il naso.
E infine, ho notato il femminile sovraesteso… ci si abitua a tutto!
Per quanto riguarda il femminile sovraesteso: l’effetto è buono!
Storicamente le lingue si sono imposte oltreconfine nei momenti dell’eccellenza culturale dei singoli popoli Ma sempre per periodi limitati, nell’ordine massimo di uno o due secoli.
Se l’esperanto è bruciato e l’inglese è “fuori dall’Europa”, l’unico modello praticabile è quello svizzero: oltre a quella nazionale, bisogna padroneggiare bene altre due lingue europee. Impresa non difficile, se scolasticamente ben organizzata, e conseguibile in poco più che in un decennio.